Il bosco intensivo è un innovativo esperimento di riforestazione, gli alberi sono piantati con una densità molto alta, condividendo le risorse, per essere più resilienti rispetto alla crisi climatica e alla mancanza di acqua

 

 

Per la Festa dell’Albero 2017, abbiamo realizzato quello che abbiamo chiamato “il Bosco Intensivo”: circa 200 tra alberi e arbusti piantati in un’area di un centinaio di metri quadri, verso la Cristoforo Colombo, per costituire uno schermo contro l’inquinamento della Via C. Colombo. Troppo vicini? Siamo matti? Forse no…

La nostra scelta si basa su alcuni riferimenti di video e articoli che illustrano questo concetto, nella linea di quanto proposto da Akira Miyawaki, già professore alla Yokohama National University, morto lo scorso anno, più che novantenne, e che ha girato il mondo piantando oltre 40 milioni di alberi in 15 paesi diversi.

Guardate qui: http://thenexttech.startupitalia.eu/4593-20151116-shubhendu-afforest-deforestazione

Le prime prove sul campo di Akira Miyawaki hanno dimostrato che le foreste piantate, che per composizione e struttura erano più vicine a quelle che sarebbero esistite in assenza di attività umana, sono cresciute rapidamente e generalmente hanno mostrato un’ottima resilienza ecologica. Ha quindi proposto un piano per ripristinare le foreste native per la protezione dell’ambiente, come risorsa per la ritenzione idrica e la protezione dai rischi naturali. 

In questo schema, gli alberi e gli arbusti vengono piantati con una densità di 3 – 5 piante per metro quadrato, inframmezzandoli tra loro. Gli alberi sono previsti con diverse altezze: arbusti, primo strato di alberi di terza grandezza (meno alti a regime), alberi di seconda grandezza, alberi di prima grandezza, che rappresentano la chioma, realizzando quelle che hanno chiamato foreste protettive multistrato, e che devono essere composte interamente da specie autoctone. 

Il metodo è stato testato con successo in quasi tutto il Giappone, a volte su substrati difficili, comprese piantagioni per mitigare gli effetti degli tsunami sulla costa, o tifoni nel porto di Yokohama, terre desolate, isole artificiali, o riparazione di pendii fatiscenti dopo la costruzione di strade.

Il metodo Miyawaki di ricostituzione delle “foreste indigene mediante alberi indigeni” produce una foresta pioniera protettiva ricca, densa ed efficiente in 20-30 anni, dove la successione naturale richiederebbe 200 anni nel Giappone temperato e da 300 a 500 anni ai tropici. 

Occorre ricordare i passi essenziali:

  • Piantare nel rispetto della biodiversità ispirata al modello del bosco naturale.
  • Scavare in profondità il terreno per lasciare spazio per le radici, in modo che possano facilmente espandersi, e concimarlo. Dopo aver concimato è sufficiente piantare piccoli alberi dell’altezza massima di 80 centimetri: «È necessario che siano molto vicini tra loro, da 3 a 5 per mq e in uno spazio non inferiore ai 100 mq». La densità mira a stimolare la competizione tra specie e l’instaurarsi di relazioni fitosociologiche vicine a quanto accadrebbe in natura. Le piantagioni vanno distribuite casualmente nello spazio come le piante sono distribuite in una radura o ai margini della foresta naturale, non in file o sfalsate come succede spesso.  Occorre comunque fare attenzione a non mettere accanto piante della stessa specie, ma inframmezzarle alle altre.

I risultati mostrano che questo metodo, se applicato correttamente, produce rapidamente una foresta multistrato e un terreno con una composizione microbica e acari che si avvicina rapidamente a quella di una normale foresta primaria. Secondo queste esperienze gli alberi cresceranno molto più rapidamente e in maniera più naturale. 

Approfondimento

E’ ormai provato che gli alberi comunicano e interagiscono fra loro e le foreste sono simili alla famiglia umana. I boschi sono infatti costruiti su relazioni che creano reti allo stesso modo delle cellule neuronali del cervello e dei social networks. Ogni albero può connettersi con altre centinaia di alberi, cooperando per il benessere collettivo.

Alberi e piante sono collegati fra loro dalla rete più antica, quella dei funghi sotterranei, i quali entrano in uno scambio mutuo con le radici degli alberi in una simbiosi detta micorriza (il fungo fornisce acqua e nutrienti provenienti dal sottosuolo, dove le radici degli alberi non arrivano, a cambio del carbonio e azoto della fotosintesi). Questi funghi creano poi connessioni fra più alberi e piante, favorendo lo scambio di carbonio, acqua e nutrienti fra loro a seconda delle necessità.

In particolar modo si è rilevata la presenza di Alberi Madre, ovvero esemplari più antichi e dal tronco più grosso, attorno ai quali si organizzano le reti sotterranee. Le matriarche del bosco inviano il loro carbonio (ottenuto tramite la fotosintesi) agli alberi più giovani, anche di specie diversa, rifornendo specialmente quelli più deboli e i suoi propri “figli”. Gli imponenti e maestosi alberi madre gestiscono insomma la connessione e gli scambi di un’intera foresta, proteggendone la biodiversità.

Avere una foresta non monocolturale, come ad esempio le foreste del Trentino colpite dalla tempesta Vaia nell’ottobre 2018, aumenta la resistenza e resilienza delle foreste. Durante la tempesta Vaia, a seguito di piogge persistenti portate da una forte perturbazione atlantica, si innescò uno scirocco violentissimo, con la caduta di circa 14 milioni di alberi tra Lombardia, Trentino, Veneto e Friuli. Vi sono state raffiche di vento a livello uragano (anche 200 km/h) e forti piogge, che hanno provocato danni da inondazioni e schianti da vento in Italia e altri paesi europei nella zone nord orientale. In Itlia, le foreste di abete rosso (dal legno molto pregiato ad esempio per strumenti musicali) erano monocolturali, e il vento non ha trovato nessun ostacolo ad infiltrarvisi, e gettare al suolo milioni di alberi. Serviranno almeno 100 anni per ricostituire la foresta, e speriamo che la riforestazione possa esser fatta con criteri di “bosco naturale”.

Recentemente, ci si è accorti che le monocolture sono fragili (come tutte le monocolture, peraltro!!) ed è iniziata la ricostruzione della foresta, con la piantumazione con diverse modalità d’impianto e attenta scelta delle specie: un approccio innovativo, nel rispetto delle dinamiche naturali, allo scopo di indirizzare l’evoluzione del futuro soprassuolo, verso l’aumento della biodiversità e la formazione di un ripopolamento più resistente e resiliente ai disturbi naturali e ai cambiamenti climatici. Un rimboschimento a gruppi, con distribuzione geometrica irregolare, utilizzando le specie ecologicamente più coerenti con il sito (Larice, Abete bianco e Abete rosso) e specie pioniere come il Sorbo montano e Salicone. In sintesi, i criteri del nostro bosco intensivo!!!

In conclusione, ci sono molti elementi che sembrano ragionevoli, e cioè maggiore biodiversità, crescita stimolata dalla competizione per la luce, reciproca protezione (umidità e quindi migliore utilizzazione dell’acqua che ricevono, dal caldo o dal freddo). Noi riteniamo anche che tra le piante, più che una semplice competizione, che pure ci può essere, ci sia anche una cooperazione tra le diverse piante. La richiesta di acqua è infatti più limitata, poiché gli alberi vicini permetteranno più facilmente il mantenimento dell’umidità, e l’acqua data all’uno servirà anche per quello a pochi centimetri di distanza. Nel nostro caso, questo è un altro punto positivo, perché abbiamo una cisterna nel Parco che recupera l’acqua dalla fontanella pubblica e quindi l’acqua è comunque limitata. D’altronde, avevamo prevalentemente alberi piccoli e quindi, facendo di necessità virtù, siamo ricorsi al Bosco Intensivo come unica possibile alternativa. 

Adesso, con il progetto Ossigeno abbiamo piantato circa 200 alberi e 70 arbusti che però, essendo di dimensioni superiori a quelle degli alberi del primo impianto, sono stati allocati a maggiore distanza, cioè non 1 – 2 alberi/m2, ma 0,5 – 0,6 alberi/m2. L’idea era di evitare che gli alberi più grandi potessero in qualche modo “soffocare” gli alberi più piccoli. Così adesso abbiamo diversi distanziamenti tra gli alberi: quello originario del primo bosco intensivo, e quelli dei due appezzamenti del bosco Ossigeno. 

Quale dei diversi distanziamenti sia il migliore non è chiaro, ma comunque ci consentirà di verificare se la distanza prevista originariamente da Miyawaki sia la migliore oppure no. Certamente adesso vediamo che innaffiare il bosco Ossigeno è più complicato che innaffiare il bosco originario perché gli alberi sono più distanti, e quindi più simili agli alberi piantati in condizioni standard.

Abbiamo piantato sia arbusti, sia alberi a differente sviluppo come altezza, comunque tutte piante da clima mediterraneo tra cui frassino maggiore, orniello, acero campestre, bagolaro, ontano nero, carpino bianco, ciliegio, tiglio e olmo, roverella, ginestre, ligustri, sanguinelle, viburni. 

Fra l’altro queste piante hanno anche buone capacità di assorbire le particelle inquinanti dovute al traffico della Via Colombo, per migliorare il “microclima” del Parco.

La fotosintesi clorofilliana è un processo biochimico con formula chimica:

6 CO2 + 6 H2O → C6H12O6 + 6 O2  

6 molecole di anidride carbonica + 6 molecole di acqua = 1 molecola di glucosio + 6 molecole di ossigeno.

Durante la fotosintesi clorofilliana, le piante assorbono sei molecole di anidride carbonica e sei molecole di acqua e le trasformano in una molecola di glucosio, che serve per la loro nutrizione, e in altre sei molecole di ossigeno,. 

Approfondimento assorbimento CO2

Singolarmente, un’essenza arborea di medie dimensioni che ha raggiunto la propria maturità e che vegeta in un clima temperato in un contesto cittadino, quindi stressante, assorbe in media tra i 10 e i 20 kg CO2 all’anno. Se collocata invece in un bosco o comunque in un contesto più naturale e idoneo alla propria specie, assorbirà tra i 20 e i 50 kg CO2 all’anno.

Lo studio della James Cook University mostra anche come l’eccesso di anidride carbonica agisca come una sorta di “fertilizzante” per le piante. Lucas Cernusak, tra gli autori della ricerca, evidenzia come gli alberi producano più foglie e legno se sottoposti a una dose di CO2 maggiore della norma. A livelli eccessivi, tuttavia, cambia la struttura dei tessuti delle foglie al punto da comprometterne le funzioni e renderne più difficoltoso, tanto per gli erbivori quanto per le larve, cibarsene. Per questi motivi, cresce il timore negli scienziati per una vera e propria “overdose” di CO2: se le emissioni aumenteranno a dismisura, le piante potrebbero non essere più in grado di garantire livelli ottimali di fotosintesi e, dunque, potrebbe essere compromessa la loro attuale e salvifica funzione di carbon sink ovvero di attenuatrici dell’effetto serra.

La capacità di stoccaggio del carbonio di un albero varia in base a diversi fattori . La specie; L’età; Le dimensioni; Il clima; Il suolo.

Alcuni alberi crescono più velocemente e quindi assorbono CO2 più rapidamente. D’altra parte, altre specie di alberi crescono più lentamente ma vivono di più, e quindi assorbono più CO2 a lungo termine. È quindi difficile stimare quali alberi assorbono maggiormente il CO2. le foreste con varie specie (foreste miste) sono da privilegiare perché assorbono più CO2.

Non è importante solo la CO2, che pure ha rilevanza, anzi in città gli alberi hanno prevalentemente la funzione di ridurre le isole di calore, trattenere l’acqua meteorica, quindi mitigare il clima, e filtrare l’inquinamento che, nel caso del traffico, è prodotto dalle emissioni di particolato (ricordate i PM10 o PM2,5?) e da ossidi di azoto NOx.

In sintesi, secondo la miglior scienza disponibile, l’insieme di tutte le soluzioni basate sulla natura, che comprendono piantare alberi, gestire le foreste esistenti in modo climaticamente intelligente, fermare la deforestazione tropicale, conservare le aree umide e le torbiere, praticare l’agricoltura conservativa potrebbe aiutarci a conseguire il 30% della mitigazione climatica necessaria al 2030 per contenere il riscaldamento a fine secolo entro 2°C rispetto all’epoca preindustrale2. La sola espansione delle foreste in tutte le aree disponibili (escludendo quelle agricole, urbane e ad alto contenuto di biodiversità come le savane) potrebbe garantire, tramite la fotosintesi aggiuntiva, un sequestro addizionale di oltre 10 miliardi di tonnellate di CO2 all’anno3. Un contributo non sufficiente, da solo, ma di cui non è possibile fare a meno se si vuole raggiungere l’obiettivo degli accordi di Parigi. Un contributo che però non è scontato. 

Anzitutto, per realizzare questo potenziale occorre piantare gli alberi giusti al posto giusto, e assicurare alle nuove foreste cura e protezione dalla siccità e degli incendi, soprattutto nei primi anni. La scienza oggi conosce bene le tecniche migliori per realizzare foreste resistenti, resilienti e funzionali, e che siano in grado di auto-sostenersi ecologicamente una volta arrivate a maturità. 

Secondo l’IPCC (International Panel on Climate Change), c’è un’alta probabilità che su scala locale gli effetti biofisici siano più importanti di quelli determinati dalla fotosintesi. In realtà, il bilancio netto sul clima dipende dall’area geografica dove si piantano le nuove foreste, dalla specie utilizzata, e dall’umidità del suolo. Secondo i modelli considerati dall’IPCC, un aumento di foreste ai tropici causerebbe un rinfrescamento sia globale che locale (2,5 gradi in meno nel Sahel, 1.2 in meno in Cina, e fino a 8 gradi in meno nel Sahara occidentale). 

Secondo alcuni ricercatori, le ondate di calore del 2003 e del 2010 in Europa sarebbero state molto più deboli in caso di riforestazione su larga scala. 

Secondo gli studi più recenti, considerando sia gli effetti biofisici che la fotosintesi, la riforestazione di 800 milioni di ettari a livello mondiale risulterebbe in una diminuzione della temperatura di 1 grado nelle regioni temperate e 2,5 in quelle boreali7. 

Ma c’è un terzo punto, forse il più importante in città. 

Le città del mondo stanno subendo le più dure conseguenze dei cambiamenti climatici: ondate di calore estivo, precipitazioni intense e improvvise, il peggioramento della qualità dell’aria. Gli alberi aiutano moltissimo, non tanto tramite l’assorbimento di CO2, di entità estremamente limitata in confronto alle emissioni di una città, ma facilitando l’adattamento dei cittadini. Rinfrescando l’aria durante le ondate di calore, assorbendo parte degli inquinanti e delle polveri sottili, riducendo il deflusso delle acque superficiali. Migliorando in sintesi, la salute e il benessere dei cittadini, in modo “altamente probabile” – come conclude anche il rapporto IPCC su Climate Change e Land.

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